IL TEMPO ESSENZIALE
di Martina Lolli
Molte le interpretazioni su cosa sia l’essenza del nostro essere: Antoine de Saint-Exupéry direbbe che è qualcosa di invisibile agli occhi; per Julio Cortázar è assecondare l’inspiegabile e beffardo gioco del destino che porta a incontri sconvolgenti; per Don DeLillo è invece assaporare l’immobilità di un luogo fuori dal tempo e dallo spazio e ritrovarsi in esso.
Nell’arte di Minus.log l’essenziale diviene elegante cifra estetica ma anche fondamentale questione concettuale legata a un tempo che sfugge alla misurazione oggettiva per farsi fluido e relativo. Minus.log lavora sulla sottrazione di quegli stimoli visivi e uditivi che saturano i nostri sensi giorno per giorno realizzando opere che siano anche luoghi, ciò che Didi-Huberman chiama “zone di calma” destinate a rendere possibile un atto di sguardo. Godere di queste opere presuppone quindi un “dono di visibilità” che solo un animo predisposto può dispiegare, un animo che sia incline a investire del tempo per graffiare la superficie dell’essenza.
“Quello che rimane” è rarefazione estetica ed esistenziale, atto del togliere che risveglia una visione assuefatta per attingere a ciò che ogni individuo ritiene importante ed essenziale; è l’orma labile di un luogo che si perde nelle volute della memoria. Per recuperare queste eccedenze si può scegliere di accogliere qualcosa di apparentemente superficiale e superfluo come l’errore, la pausa, la vacuità di senso, la ripetizione e l’attesa, residui della nostra forsennata produzione di immagini. I ricordi stessi divengono presto detriti che si depositano, qualcosa da accantonare in velocità per far spazio ad altro e in questo processo bulimico ogni immagine immagazzinata diviene sterile rifiuto. Allentare il pensiero per lasciare zone di senso lato significa intravedere nelle sue smagliature un qualcosa di nuovo e remoto allo stesso tempo, qualcosa che permane a lungo perché è sempre stato lì, ma che si rinnova di volta in volta, o ancora trasformare questi detriti in rimanenze significanti e far riecheggiare i ricordi in memorie. Ciò che conta in questo luogo è saper attendere e smarrirsi nell’apertura di un accadimento interiore in cui ci si concede un incontro con se stessi.
L’esperienza che ne deriva lascia affiorare ciò che rimane, la traccia di queste memorie affastellate che sopravvivono in noi poiché legate a particolari stati d’animo e a risonanze emotive che si sono silentemente stratificate nel nostro essere.
E così, nel tempo perduto di questa esperienza, tempo di nessuna utilità, i dettagli si amplificano e perdendosi nel loro gioco superficiale la nostra anima si addentra nella dimensione dell’immaginazione in cui il vedere troppo diviene vedere dentro. Recuperare le forme sedimentate dell’anima, per ritrovarsi nuovi, significa accettare che il nostro spirito vive anche del vuoto e della latenza, spazi in cui la più banale delle scoperte acquista un suo interesse come “un inaudito miscuglio di realtà e di nostra essenza” (Cesare Pavese).
Nella ricerca di Minus.log l’essenziale è pura forma, ma anche qualcosa che non è percepibile se non chiudiamo gli occhi; è un dono, poiché lo si incontra per caso e ci sorprende ogni volta; è luogo di sospensione dove, nell’inganno dell’attesa, realizziamo che il tempo sprecato è il tempo della vita di cui “ciò che rimane” è la sostanza.
LABILI CONFINI DELLA PRESENZA
di Antonio Zimarino
Gli artisti possono avere un rapporto ambivalente con la natura delle cose, la realtà e le relazioni in essa: la maggior parte tende a “prendere” da esse, intervenendo, frammentando, ricomponendo, per poi restituirle attraverso propri approcci e considerazioni. Cambiano lati di osservazione, si mettono in rilievo taluni particolari ma il più delle volte si commenta dal proprio punto di vista, stato e condizioni del reale.
Altri artisti invece (molti di meno, ma è questo il caso dei Minus Log) lavorano proponendo altre “nature” alle cose e alle relazioni, creando situazioni relazionali o visive che non possono esistere naturalmente, per far vedere e percepire la possibilità che esistano aspetti e idee diverse della stessa realtà.
Non c’è sempre bisogno di grandi e straordinari mezzi economici e tecnici come quelli, che so, di Turrel o di Ikeda ma si può costruire un mondo visuale differente riuscendo a sfruttare ciò che già si ha, in modo diverso rispetto alle funzioni abituali. Per poter fare questo l’artista deve pensare differentemente non solo “il mondo” ma anche il mezzo che usa per interpretarlo: bisogna dunque cambiare la funzione solita di un videoproiettore, di una luce o di un dipinto perché essi non descrivano, ma “ricreino” il mondo che si è immaginato.
Insomma ci sono artisti che commentano il mondo e artisti che lo pensano diversamente per invitarci a “praticare dei mondi possibili” e vedere distonicamente il normale: inventarsi un’altra narrazione, non significa non accettare il mondo ma significa più spesso indicare che esso può essere come ce lo immaginiamo e che addirittura le nostre percezioni delle cose potrebbero essere assolutamente diverse di quelle a cui ci abituiamo nell’immanenza del quotidiano.
Per fare questo i Minus Log hanno scelto di indagare le possibilità che la luce ha di creare o modificare lo spazio. Essa si applica alla linea, alla forma basilare, alla cromia in modo essenziale: linee e forme vengono poste spesso sghembe e oblique in modo da contraddire la prevedibile ortogonalità; il segno / luce, disponendosi in serie variamente mobili di linee logico-razionali o in patterns/textures di sottilissima differenza cromatica, diventa capace alternativamente di delineare o decostruire, materializzare e smaterializzare, disegnare e cancellare le forme e lo spazio.
Nelle installazioni, ma sarebbe meglio dire nella differente realtà proposta, ci si aggira tra strani monoliti da cui scaturiscono fasci luminosi (a volte appena percettibili) che costruiscono e sviluppano segni estremamente essenziali: le configurazioni di luce seguono ritmi alternati, più o meno veloci, complicandoci le percezioni e la delineazione di ciò che sarebbe solido. Ma anche l’idea di “quadro” subisce lo stesso trattamento: diventa superficie di vibrazione senza spazio e senza tempo; sono fatti di materia e vuoto, materia rimasta, tenuissima, delicatissima, fatta appena di vibrazioni che ci fanno percepire il punto incerto tra materia e assenza.
E’ un processo continuo di destrutturazione delle masse, del razionale e del definito, attraverso un processo razionale, strutturato, assolutamente non emotivo; il suo “fine” diventa, al contrario, proporci l’esperienza estetica sorgiva del “primo percepire” forma e colore, eliminando la rappresentazione, per avviarci verso l’esperienza interiorizzata della percezione, ponendoci sempre sul labile confine tra presenza e assenza, tra grigio e colore accennato, tra bianco e pigmenti.